7 novembre 2013

"Il cavallo che si è perso ritrova la strada di casa, solamente indirizzando la sua attenzione alla strada"


“Il cavallo che si è perso ritrova la strada di casa, solamente indirizzando la sua attenzione alla strada”. Milton Erickson, psicoterapeuta americano, padre della contemporanea psicoterapia ipnotica, vedeva nella metafora uno strumento terapeutico privilegiato. E questa, del cavallo che si è perso, è tra le sue più famose.

La metafora non deve essere scalfita, dandone una spiegazione, un disvelamento “logico”: è “magica”. Usata in maniera congrua nel dialogo con il paziente, la metafora porta l’ascoltatore a significati altri rispetto all’enunciato reale, che in quel momento scopre come propri, stimolando in lui una serie di passaggi logico-emozionali, ma soprattutto emozionali, utili -o probabilmente utili- ai suoi percorsi interiori, capaci di portarlo al cambiamento. Rapidi, sintetici, associativi, creativi. Il che gli consente di accedere, senza le teorizzazioni (emisfero cerebrale sinistro) o le interpretazioni proprie o dello specialista, al mondo che sta al di là del razionale, accedere al mondo emozionale e creativo (emisfero cerebrale destro), e quindi anche al proprio potenziale. Grazie a una nuova modalità di “lettura” e “autolettura”

Il potenziale è il nostro mondo “nascosto”: un’energia interiore, che può emergere grazie alle più svariate sollecitazioni che si ricevono.
L’apprendimento scolastico, per esempio, è un processo di incessante e continua realizzazione del potenziale dell’alunno (per ognuno il proprio).
Un altro esempio che ci riguarda più da vicino: la balbuzie, e le sue manifestazioni, convivono con le capacità potenziali della persona a un linguaggio fluido e corretto. Occorre volerle cercare (la motivazione alla terapia), queste potenzialità, oltre che saperle trovare (la terapia). E soprattutto stabilizzarle, tramite una nuova armonia che il parlante riesce a creare, nel rapporto con sé stesso e con il proprio linguaggio, Perché, magari solo episodicamente, ma di fatto, quel potenziale emerge abbastanza spesso nella “giornata linguistica” di un “balbuziente standard”.

La cura della balbuzie vuole rendere stabile, attuata e realizzata, tale potenzialità. Che restituisca alla comunicazione la propria libertà e fluidità, secondo un’impostazione interdisciplinare tra psicologia e linguistica, psicologia e fonetica (quest’ultima comprendendo anche la respirazione).
Ma questa asserita interdisciplinarietà deve essere motivata e spiegata.

L’interdisciplinarietà come elemento base nella cura della balbuzie sarà oggetto dei miei prossimi articoli. Ma non solo l’interdisciplinarietà: anche il teatro, e il doppiaggio, e le sedute, e alcune registrazioni dalle sedute (fatta salva la privacy e il rispetto deontologico verso gli obblighi professionali dello psicologo), e molto altro. Ma soprattutto ci saranno approfondimenti proprio sul tema balbuzie: sulle sue caratteristiche, quindi, oltre che sulla terapia. Nei prossimi giorni, inoltre, racconterò, insieme a Michela Costa, attrice didatta, l’ultima esperienza fatta a proposito delle lezioni di teatro per la cura della balbuzie.

Per ora ci fermiamo. Prima, però, elenchiamo le possibili presunte cause della balbuzie. Da qui partirà il prossimo post.

  1. Le cause della balbuzie.

Va subito affermato, in proposito, che ne sappiamo davvero molto poco. Nessuna ipotesi sulla etiologia di questo disordine del linguaggio può essere dimostrata. E le ricerche, fin’ora, non sembrano aggiungere niente di nuovo. Sarò grato a chiunque vorrà fornirmi notizie diverse in proposito.

Le ipotesi generalmente avanzate sono tre:

a) cause organicistiche: eccitabilità neurovegetativa, ma anche traumi cerebrali, ecc.
b) cause psicogene: 1. Conflitti interiori acquisiti nel percorso di adattamento all’ambiente o nel rapporto con i genitori.
2. Sensazioni di paura o ansia di fronte alle prima difficoltà
3. Contrasti derivanti dagli effetti della comunicazione verbale, della comunicazione, cioè, dei propri contenuti; quindi, e per estensione, ansie derivanti dai rapporti interpersonali, vissuti come difficoltosi perché caratterizzati da ansie di accoglimento, ecc.
c) cause ereditarie.